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LE PETIT PRINCE A DIT Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 9 dicembre 1992
 
di Christine Pascal, con Richard Berry, Anémone, Marie Kleber (Francia - Svizzera, 1992)
Violette ha dieci anni, vive a Losanna con due genitori separati ed una vecchia governante che la coccola , ama fin troppo i dolci. Il risultato è tutto da vedere: patatona ed impacciata. Ma tutto ciò non fa parte che del preludio giocoso: assieme alla guerriglia tradizionale che s'infliggono papà e mammà, Richard Berry ex-medico riciclato nella ricerca scientifica, ed Anémone attrice di teatro che sta lavorando a Milano. È lei che prende finalmente sul serio i mal di testa di Violette: e la diagnosi dello scanner è impietosa. Piuttosto che curarla per pochi mesi di sopravvivenza, il padre la rapisce praticamente dall'ospedale: mentre percorrono il Vallese, canta con lei le filastrocche dell'infanzia ("Le petit prince a dit..."), dormono nel primo motel che incontrano, e salgono sulle vette che dividono la Svizzera dall'Italia. È in quei luoghi che, molti anni prima, Adam aveva compiuto il gesto del quale va più fiero: aiutare un amico ad entrare clandestinamente attraverso le frontiera incustodita.

Quella frontiera ha assunto ormai un altro significato: "vedi quello spiazzo laggiù nella valle?" dice alla bambina. "Mentre io ritorno indietro a recuperare l'auto, tu scendi da sola, e ci ritroviamo in quel posto. Cosi potrai dire di aver saputo passare la frontiera tutta da sola". Violette contempla il paesaggio dalla cima, e si assopisce. Mentre dorme, un farfalla striata di nero le si posa sulla fronte. Più tardi, una volta raggiunta la madre a Milano, proseguito il viaggio fin sulle rive grigie di un mare, padre e figlia cercheranno di aprirsi a vicenda. Lui, spiegandole le ragioni scientifiche - materiali - del male. Lei, confidandole un racconto ancora più arduo, perché immateriale, indicibile: come, al momento di essere sfiorata dalla farfalla quando stava in alto alla frontiera, si è sentita distaccata, trasportata, finalmente rasserenata.

Con un film altrettanto sereno, limpido, impeccabile Christine Pascal ha raccontato qualcosa di impossibile: la morte annunciata, dapprima rifiutata, poi accompagnata di una bambina di dieci anni. Senza un ombra di esitazione: il che significa senza mai cadere nel melodramma, nel patetismo, nel rifiuto della lucidità.

Se ci riesce, come in ogni opera cinematografica che si rispetti, è grazie ad un'equivalente lucidità della sceneggiatura e della regia. La prima, che non si permette di giudicare; e nemmeno di limitarsi ad un solo punto di vista di uno dei tre personaggi-chiave. Che, al contrario evolvono autonomamente, verso una presa di coscienza individuale, in un itinerario personale. Quello della bimba, che assume coscientemente il proprio destino; del padre, che accetta lo scacco della soluzione razionale; della madre che introduce il soprannaturale, l'irrazionale, il poetico per far ritrovare al trio famigliare l'armonia perduta. E per andare riconciliati all'appuntamento provvisoriamente rinviato.

La regia, con le sue immagini precise, chiare e trasparenti, è di un'assoluta dirittura intellettuale: essa sembra mettersi al servizio degli ispiratissimi attori, farsi loro complice in un abbraccio affettuoso ma mai sentimentale, trovando nell'incontro con la natura come una sua forza di rigenerazione panteistica.

Mettendo in scena con misura straordinaria, con serenità quasi giocosa un'ingiustizia cosi inaccettabile come la morte di una bambina, Christine Pascal riesce a volgerla in un atto non solo d'amore, ma di fiducia. Riesce a trasformare la negatività più totale in un atto positivo che è un inno commovente alla vita.


   Il film in Internet (Google)

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